Shiva Nataraja: chi è?

Nella concezione hindu l’universo appare, permane, scompare in un’incessante danza di stelle, pianeti, galassie: negli interstizi dello spazio il gioco della vita continua su piani diversi e mentre un mondo viene all’essere un altro termina e un altro ancora è nel pieno del suo svolgimento. Una danza: è così che l’immaginario indiano ha concepito il mistero dell’esistenza che pulsa nello spazio infinito e l’ha raffigurato in Śiva Naṭarāja, Signore della Danza, che eternamente esegue lo sfrenato tāṇḍava, ineffabile simbolo dell’eterno originarsi e dissolversi dell’universo. Il tempio di Chidambaram, nel Tamilnadu, è il luogo elettivo del dio e le raffigurazioni che lo decorano costituiscono il più vasto campionario di iconografia coreutica dell’India.Nelle immagini tradizionali, soprattutto quelle in bronzo. Śiva si drizza su un piedistallo a forma di loto che rappresenta il cuore del devoto, ove incessantemente ha luogo l’ānanda tāṇḍava, la danza della beatitudine che intreccia e scioglie i legami dell’anima. Il corpo del dio vibra d’infinita energia e i capelli guizzano selvaggi attorno al suo capo, in un dinamismo centrifugo e centripeto, che irraggia le molteplici forme dell’essere e le riassorbe. Ma il volto appare sereno e impassibile, statica immagine del Motore immobile, dell’Assoluto al di là del tempo e di ogni mutazione. Un accenno di sorriso distende le labbra del dio, che contempla dentro di sé il perfetto equilibrio tra la vita e la morte. I suoi due occhi rimandano al sole e alla luna, simboli della dualità cosmica, e il terzo – che si apre in un fascio di raggi di fuoco al centro della fronte – emana la luce che dissipa le tenebre dell’ignoranza ed elargisce il dono della Visione unificante.

Le braccia delimitano il processo dell’esistenza e descrivono il rapporto fra Dio e l’anima, tracciando un cerchio di fuoco che è la danza dei mondi e la ruota del saṁsāra, quel ripetersi di vita e di morte che imprigiona l’anima nella materia. Le due braccia superiori scandiscono l’inizio e la fine del ciclo cosmico: la mano del braccio destro regge il ḍamaru, il tamburello a clessidra simbolo della vibrazione primordiale che ha scisso l’Unità nella pluralità; nella mano del braccio sinistro guizza la fiamma, strumento di distruzione e di rigenerazione.Dissolvendo con un’ignea conflagrazione l’universo al termine di un’era, il dio ne prepara la rinascita. Ma la fiamma è anche e soprattutto immagine di mistico ardore e conoscenza salvifica. E’ il darśana, la visione che dissipa l’ignoranza simboleggiata dal demone Apasmāra, figura prostrata su cui Śiva appoggia saldamente il piede destro. Apasmāra incarna l’inquietante potere oscurante del Divino e l’attrazione che la materia esercita sull’anima, confondendola e imprigionandola. Il tāṇḍava, simbolo dell’eterna lotta fra le polarità della vita, rappresenta anche lo scontro e l’integrazione delle forze oscure della psiche. Non solo il cosmo necessita della dissoluzione per rigenerarsi, ma pure l’essere umano deve distruggere le corazze dell’ego se vuole espandersi e progredire.
Le due braccia inferiori di Śiva, però, rassicurano ed elargiscono la sua grazia: nel destro la mano mostra il palmo nell’abhayamudrā, il “gesto del non temere” mentre nel sinistro indica il piede sollevato, invitando il devoto a prendervi rifugio.
L’ambiguità è la caratteristica precipua del Dio, che attraverso la danza emana, conserva, dissolve l’universo, oscurando e illuminando l’anima. Al tempo stesso, dunque, è Colui che dà e che toglie, che confonde e che salva. Così è finché l’uomo è dentro il saṁsāra, nel paradosso dell’esistenza, nei giochi conflittuali della psiche. Ma quando intuisce dietro il divenire la presenza immota dell’Essere, la danza cessa e il battito del cuore si spegne nell’ineffabile pace del vuoto. 

 

Marilia Albanese Indologa e insegnante della Rhamni Scuola di Yoga relativamente ai corsi quadriennali di formazione insegnanti yoga e ai corsi di formazione continua 

 
 
 
 


 
 
 
 
 
 
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