La parola stress deriva dall’inglese e significa letteralmente “sforzo”; etimologicamente origina dal latino strictus, che significa “stretto”, “compresso” e, in inglese, conserva ancora questa accezione nel suo significato secondario di “difficoltà”, “afflizione”. A ognuno di noi è capitato di utilizzare questa parola in modo generico, per indicare un affaticamento psico-fisico, una tensione nervosa. Può capitare di dire che qualcuno “è sotto stress” per indicare una condizione faticosa, che sta stretta, dalla quale si desidera uscire per ridefinirne una nuova.
Nel linguaggio medico lo stress indica la risposta funzionale con la quale il nostro organismo reagisce ad uno stimolo, definito stressor, più o meno violento e di qualsiasi natura: microbica, chimica, traumatica, termica, emozionale. Il primo ad utilizzare il termine stress in relazione all’individuo, fu il biologo W. Cannon, per indicare un qualsiasi fattore in grado di alterare le normali funzioni fisiologiche e psicologiche dell’organismo. Partendo da questa definizione, pochi anni dopo, il biologo H. Selye, studiando le alterazioni che avvenivano nella fisiologia dell’organismo stressato, definì come “sindrome generale di adattamento” il complesso di tali modificazioni.
Oggi è possibile basarsi su studi scientifici sistematici per dimostrare il rapporto tra stimoli ambientali, modificazioni fisiologiche e sviluppo di malattie. Questo triplice rapporto ha portato allo sviluppo di una teoria psicobiologica unificata dello stress e ad una sempre più approfondita conoscenza di come le modificazioni biologiche e fisiologiche di un organismo siano indotte dall’esposizione sia a stimoli fisici, chimici o biologici, sia a stimoli
psicosociali di qualsiasi entità.
L’insieme di queste scoperte ha portato allo sviluppo di indagini sistematiche sul ruolo dello stress nell’insorgenza delle più disparate patologie, fisiche e mentali, e sempre più ricerche hanno messo in luce come la risposta biologica allo stress sia innescata non tanto dallo stimolo in sé, quanto piuttosto dalla reazione emozionale che questo stimolo suscita.
Nelle teorie oggi maggiormente accreditate si mette in evidenza come, a livello cerebrale, ogni singolo stimolo esterno sia soggetto ad una automatica processazione che:
- valuta le caratteristiche ed il potenziale significato dello stimolo;
- genera una risposta emozionale.
Le qualità e il valore dello stimolo costituiscono informazioni che dipendono dal soggetto, pertanto il ruolo dei fattori cognitivi diventa determinante nella genesi e nello sviluppo della reazione da stress: un’esperienza può essere stressante per alcune persone, ma non per altre, e può avere differenti livelli d’intensità. Dunque, l’attivazione emozionale ed il ruolo dei fattori cognitivi sono da considerare rilevanti al pari dello stimolo stressante stesso. Si può allora affermare che lo stress si manifesta come risposta biologico-somatica e, insieme, psicologico-comportamentale.
Attraverso i suoi studi, Selye osservò che le alterazioni fisiologiche di un organismo stressato sono sempre organizzate in tre fasi, distinte tra loro e in successione.
Fase 1: la reazione d’allarme
È caratterizzata da una reazione acuta in cui l’organismo mobilita le sue difese: il sistema nervoso simpatico si attiva istantaneamente utilizzando neurotrasmettitori già sintetizzati ed immagazzinati; si instaura poi una iper-attivazione dell’asse ipotalamo surrenale HPA. Lo stimolo proveniente dall’esterno viene preso in considerazione per essere decodificato e tradotto in una particolare zona del nostro cervello che, attraverso la produzione di cortisolo, permette al nostro corpo di mettere in atto meccanismi fisici e mentali per fronteggiare il pericolo.
Fase 2: la resistenza (o adattamento)
L’organismo è completamente impegnato a fronteggiare lo stressor. La produzione di cortisolo continua e, contemporaneamente, il corpo si attiva per contrastare gli effetti negativi dell’affaticamento prolungato, producendo altre risposte ormonali da parte di ghiandole endocrine specifiche.
Fase 3: lo stadio di esaurimento
Subentra quando l’esposizione allo stressor si protrae per troppo tempo e la corteccia surrenale entra in uno stato di esaurimento funzionale, cominciando a produrre effetti sfavorevoli – a volte permanenti – a carico della struttura psicosomatica.
Durante la reazione allo stressor, si sono riscontrate numerose modificazioni a livello biologico, su tre principali sistemi fisiologici:
Tutte queste alterazioni generano una sindrome stressogena che sfocia in patologie fisiche più o meno gravi, a carico dei vari apparati e sistemi.
A livello psicobiologico, la capacità di fronteggiare lo stress è determinata da diversi fattori:
Lo stress è qualcosa di dinamico e contestuale: cambia nel tempo e nelle situazioni, pertanto presuppone un’attività cognitiva di valutazione della situazione.
Con l’avvento dell’industrializzazione il lavoro è diventato spesso solitudine. Il rumore stesso delle fabbriche impedisce la relazione sociale. Con la deindustrializzazione nel lavoro d’ufficio e, oggi, con l’introduzione delle nuove formule di lavoro come lo smartworking e l’homeworking, non si è più tornati alla socialità: il lavoro continua ad essere impostato sull’isolamento e siamo sempre più affetti dai conflitti generati dallo stress e dalla competizione. In questo sistema produttivo globale assistiamo allo sviluppo di un sistema del mercato del lavoro sempre più frammentato, competitivo e precarizzato, che porta in sé quei germi del disagio che ogni singolo individuo esperisce nella propria quotidianità lavorativa, con ripercussioni nella sfera sociale e privata. La paura di fallire ed essere licenziati porta ad una “dedizione” al lavoro che produce un logoramento laddove il lavoro è vissuto come mero dovere, come qualcosa di necessario alla sopravvivenza e dunque imprescindibile, ma non gratificante, non armonizzato con la sfera vitale dell’individuo perché ad essa estraneo, se non addirittura distonico.
Si è visto come i principali fattori che determinano l’insorgenza dello stress lavoro-correlato siano determinati da:
Affinché la curva dello stress dell’individuo - o di un team di lavoro - si mantenga sempre ad un livello di attivazione tale da non superare il punto critico che da eustress sfoci in stress disfunzionale, bisogna mettere in campo una molteplicità di strategie d’azione. Ogni individuo, per poter sopravvivere e affrontare lo scenario lavorativo e sociale in cui si trova, dovrebbe avere a disposizione delle grandi risorse interiori. Ancora prima di possedere una connessione internet, l’uomo dovrebbe avere un filo che lo ricolleghi al proprio corpo, alle proprie sensazioni e poi alla mente.
In questo sistema di rielaborazione, il corpo riveste un ruolo fondamentale: quando l’organismo è in equilibrio e in ascolto delle nostre parti alte (emotiva e psichica), ci si trova in uno spazio di solidità personale in cui è possibile prendere decisioni giuste, poiché la volontà d’azione è in sinergia con il proprio corpo. Se il corpo invece risponde in maniera distonica all’inconscio, o se la mente non ascolta i segnali che il corpo manda, si esprimono sintomatologie e stati d’animo negativi. L’unica cosa saggia da fare è fermarsi ad ascoltarlo e, per farlo, occorre avere a disposizione risorse interiori. Ascoltarsi, assestarsi e poi riadattarsi, per cambiare in armonia con se stessi e con il mondo che ci circonda: queste qualità interiori si possono sviluppare, ma alla sola condizione che ci si assuma la responsabilità della propria vita.
Coltivare la propria vita per far crescere queste capacità è una disciplina e, come tale, necessita di un metodo: un insieme di azioni pratiche che richiedono tempo ed esercizio costante, che possono anche non avere nulla a che vedere con l’essere spirituale, seguire in una filosofia, credere in una religione, ma che hanno in comune l’essere un atto di volontà. Ecco quindi, l’importanza di una pratica intenzionale. Innumerevoli ricerche hanno ormai dimostrato come l’intervento di una intenzionalità consapevole permette lo sviluppo della neuro-plasticità cerebrale, ossia rimodella, migliorandoli, i circuiti cerebrali. Attraverso il metodo dello yoga, il continuo richiamo che si fa allo sviluppo di una consapevolezza profonda nei confronti del proprio corpo e dei propri movimenti psichici, altro non è che il “rimodellamento di queste autostrade neuronali”, attraverso cui permettiamo lo sviluppo della resilienza e di tutte le abilità ad essa connesse.
Attraverso l’ascolto del proprio corpo e del proprio respiro – attitudine che si instaura necessariamente durante una pratica di yoga – si attivano delle risposte fisiologiche molto utili per contrastare lo stress in tutte le sue fasi di sviluppo:
Allo sviluppo di una flessibilità corporea corrisponde una crescita della flessibilità cognitiva.
La mente è in grado di leggere i messaggi del corpo e delle emozioni in relazione a ciò che accade intorno a noi, poi codifica e mantiene le rappresentazioni di queste esperienze – le memorie – seguendo un percorso solitamente influenzato dal contesto sociale in cui la persona nasce e vive.
Se avvengono cambiamenti di contesto o circostanze, il nostro corpo e la nostra mente lavorano in sinergia per assestarsi e riadattarsi. La risposta a questi cambiamenti incide sempre sull’armonia nella relazione tra corpo, mente e ambiente esterno. Se la mente è bloccata e irrigidita da condizionamenti di pensiero, da rappresentazioni di traumi passati, da immagini distorte del sé, allora non riuscirà ad avere la flessibilità per interpretare in modo giusto i messaggi del corpo che risponde agli eventi esterni, consumando energie nel corpo e generando stati emotivi e mentali negativi. Le chiusure emotive e mentali generano blocchi neuro-muscolari che necessitano di essere sciolti e poi trasformati in consapevolezza. È proprio grazie alla pratica di asana e pranayama che, lavorando sullo sviluppo di una flessibilità corporea, si arriva ad una corrispondente crescita della flessibilità cognitiva. Grazie alla pratica il nostro corpo diventa veicolo per installare nuovi interruttori esistenziali: accettazione, equilibrio, serenità. Attraverso il respiro e il movimento si instaura una nuova attitudine psichica: si diventa più lucidi, più stabili, più flessibili. Cioè più resilienti.
Deriva dal latino resalio, termine che indicava la perseveranza di chi tentava di risalire sulla barca rovesciata dal mare. Ho sempre pensato che l’etimologia delle parole sia importantissima e, in quella della parola resilienza, trovo un non so che di commovente se penso alla metafora che si può fare con la vita. In psicologia la resilienza viene definita come la “capacità dell’individuo di fronteggiare una situazione stressante, acuta o cronica, ripristinando l’equilibrio psico-fisico precedente allo stress e, in certi casi, migliorandolo. E’ la capacità di auto-ripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche ricostruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante le situazioni difficili che fanno pensare ad un esito negativo. È la capacità di trasformare un rischio in una risorsa”. Non è la capacità di persistere, bensì quella di agire, non più istintivamente, ma disciplinando le nostre emozioni negative dandogli un nome e accettando la vita in ciò che accade: questo non significa rassegnarsi alle cose negative senza tentare di migliorare la situazione, ma non provare un continuo senso di rancore. Presuppone la capacità di restare sensibili alle opportunità positive che la vita ci offre, senza alienare la propria identità. Significa restare umani. Essere resiliente non vuol dire solo riprendersi da un’esperienza negativa, ma significa farlo facendo un balzo in avanti, trovando una nuova e più intensa energia ed un nuovo equilibrio, maggiormente stabile. Essere resiliente è rigenerarsi e risvegliarsi ad un nuovo grado di consapevolezza.
Articolo scritto da S. Torti, insegnante di Yoga diplomata con la A.S.D. scuola di yoga Rhamni.