Yoga: un viaggio che inizia dal corpo

“Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si risveglia.”

G.Jung

Un percorso a ritroso verso se stessi

La tradizione dello yoga ci insegna che il percorso di conoscenza di sé, svādhyāya, inizia dall’osservazione del proprio corpo, la prima cosa tangibile alla quale possiamo fare riferimento tutti, lo strato più esterno, dal quale partire per arrivare nel profondo, seguendo un percorso la cui direzione è da fuori a dentro. Ma è anche un percorso da pieno a vuoto, perché ha come scopo proprio lo svuotamento, la liberazione, lo sgombero da tutti quei meccanismi mentali, quelle abitudini che ci siamo costruiti come muri attorno alle vere emozioni. Da dove iniziare questo viaggio, se non dal respiro?

Il respiro ci rivolge la parola

Il respiro, se pensiamo a come inizia nella nostra vita, è il primo strumento di indipendenza che ci viene affidato. La prima inspirazione arriva quasi violentemente nei polmoni del neonato, per svegliarlo, letteralmente, alla vita, per dirgli con decisione “ecco, ora tocca a te, devi farlo da solo, non c’è più il cordone ombelicale, nessun altro può respirare per te”. E così, improvvisamente, il bambino deve agire autonomamente per assicurarsi la sopravvivenza. Il respiro è la prima azione, allo stesso tempo involontaria e volontaria, che possiamo fare per creare spazio dentro di noi, per dialogare fisicamente, concretamente con le nostre cellule. Nella stessa etimologia della parola “dialogo” c’è il concetto di spazio: la particella “dia" significa “fra”, mentre “logos” significa “discorsi”, uno spazio, quindi, fra due discorsi, ma è una distanza che non separa, bensì permette agli estremi di incontrarsi, in un continuo scambio di opinioni. Spazio e movimento.

Spazio da ritrovare

A questo proposito ho trovato molto interessante la definizione di respirazione, non solo come un movimento d’aria dentro e fuori dai polmoni, ma anche come un cambiamento di forma delle cavità corporee, quella addominale e quella toracica. Nell’inspirazione il diaframma si contrae, la cavità toracica si espande premendo su quella addominale che cambia forma a sua volta. Il vedere la respirazione in questo modo fa riflettere sul fatto che quello spazio lo creiamo noi. L’aria è solo spinta dall’esterno grazie alla pressione atmosferica che circonda il nostro corpo. Durante l’inspirazione abbiamo la sensazione di immettere aria dall’interno, ma è proprio il contrario. Noi creiamo lo spazio ma l’universo lo riempie. Tutto è  già predisposto, dobbiamo solo mettere in ordine affinché sia la vita a respirare in noi.

Il respiro

Se ascoltiamo il nostro respiro e lo ampliamo, creiamo più spazio, muoviamo i nostri organi interni, li massaggiamo, lasciando semplicemente che l’aria entri nei polmoni, sollevando e allargando la nostra gabbia toracica, sbloccando così il diaframma e tutti i muscoli accessori alla respirazione. Il respiro va a riempire lo spazio che si è creato nel corpo, per arricchirlo di ossigeno ed innescare tutta una serie di reazioni chimiche che costituiscono un vero e proprio dialogo tra ogni singola cellula del corpo. L’ossigeno, infatti, rende più alcalino il ph della matrice extracellulare, quel liquido vitale nel quale sono immersi tutti gli organi del corpo, e un ambiente più alcalino è un ambiente meno denso, più spazioso, dove la comunicazione tra le cellule è più facile e priva di ostacoli.

Verso una dimensione interiore

Creare spazio, liberare spazio, si traduce sul tappetino in un dialogo con il proprio corpo per liberarlo dalle rigidità e, con il tempo, liberare anche la mente dai suoi meccanismi. La presa di coscienza del proprio corpo è la prima tappa fondamentale per accedere a svādhyāya, allo “studio del sé”, perché ci permette di avere una percezione reale di noi stessi. Se è vero che il corpo è la cosa più facile da osservare, è altrettanto vero che non siamo abituati a farlo o non lo facciamo nel modo corretto, perché ignoriamo anche i più normali meccanismi fisiologici, quali la respirazione. L’avidyā, ovvero l’ignoranza, la principale causa di sofferenza per Patanjali, che ci impedisce di vedere la realtà così com’è, non è un concetto filosofico, ma parte banalmente dal basso, dalla conoscenza del corpo. La scarsa connessione che abbiamo con il nostro corpo è avidya quotidiana, pratica, tangibile. E proprio per questo è dal corpo che si deve partire, è al corpo che bisogna rivolgere la parola e ascoltare ciò che ha da dire.

Respirare con la colonna vertebrale

Il diaframma è il muscolo principale responsabile della nostra respirazione, il suo contrarsi e rilassarsi è ciò che permette quel cambiamento di forma tra cavità toracica e cavità addominale. Questi due spazi sono però sostenuti e uniti posteriormente dalla colonna vertebrale, che è quindi coinvolta in questo movimento. Quasi si potrebbe dire che si può respirare con la colonna. Quando ci chiedono di fare una profonda inspirazione, solleviamo istintivamente il busto, quindi distendiamo la colonna per permettere all’aria di entrare più facilmente. Ad ogni atto inspiratorio allunghiamo tutta la colonna. Le costole si sollevano e, poiché si articolano ai corpi vertebrali, contribuiscono ad allontanarli l’uno dall’altro, alleggerendoli dalla compressione a cui sono sottoposti a causa della forza di gravità. Durante l’espirazione, viceversa, lo svuotamento del corpo provoca un leggero riaccorciarsi della colonna, le cui componenti si riavvicinano tra loro. Se l’atto respiratorio si svolge correttamente, cioè in modo completo e pieno, la colonna vertebrale viene sottoposta ad un continuo e benefico movimento di estensione e rilascio, molto efficace nel produrre una costante compensazione della forza esercitata verso il basso nella posizione verticale. Con un solo atto respiratorio diamo sollievo a tutta la colonna: niente di più facile, eppure nella vita quotidiana non respiriamo quasi mai con la colonna, il nostro respiro è corto. I frenetici ritmi di vita che abbiamo ci permettono di modificare la forma del nostro torace e del nostro addome solo il minimo indispensabile. Non creiamo spazio, non lo liberiamo.

L’allungamento della colonna

La pratica dello yoga dà primaria importanza all'allungamento della colonna, o meglio, all’auto-allungamento, cioè a posture dove, con il semplice aiuto del respiro, possiamo da soli, sin da subito, creare quello spazio vitale tra le vertebre, dando loro letteralmente più ossigeno. Un allungamento dunque, sarà sicuramente utile prima di ogni altro movimento, per attivare la muscolatura del dorso, allentare la compressione delle vertebre e, soprattutto, per cominciare quel percorso di sottrazione che è lo yoga, liberando la colonna dalle sue tensioni fisiche che corrispondono sempre a rigidità più profonde, che segnano il nostro essere. Per rimuovere queste rigidità ed avere una visione più chiara di chi siamo, la pratica dello yoga ci guida verso un’azione presente e consapevole che ci porta a “parlare” alle nostre rigidità, a riconoscerle e ad accoglierle. Questa è un’altra iniziale fase del dialogo interiore che lo yoga ci aiuta a costruire.

L'incontro con se stessi

Una delle maggiori preoccupazioni di chi vorrebbe praticare yoga è il non essere abbastanza flessibile, che il più delle volte sottende la paura di non reggere al confronto con gli altri praticanti. Si negano le proprie rigidità, perché ciò che conta è il confronto con gli altri, non la possibilità di conoscersi; completare una postura, non completare la conoscenza di sé. Un diverso grado di flessibilità pone solo di fronte ad un diverso punto di rigidità da sciogliere ed è in questo incontro che si compie il primo passo verso un nuovo modo di rapportarsi al corpo e di dialogare con esso. Un dialogo che ci porta ad accettare il nostro corpo e accogliere amorevolmente le sue rigidità come parte del nostro vissuto. Dobbiamo creare flessibilità fisica ed emotiva, non aggiungere tensione, foga, competizione, severità, giudizio. Se smettiamo di lottare con le nostre tensioni, potremo scoprire che anche loro smetteranno di lottare con noi. E la quiete ritrovata dentro di noi si rivelerà anche verso gli altri. Non dico che non saremo più preda di rabbia o dolore, ma si potrà imparare a gestirle meglio. Ma tutto ciò è possibile solo con una pratica costante, cosa non certo facile, perché richiede tempo e dedizione, ma ci aiuterà davvero nel nostro percorso di crescita.

Parlare al corpo e oltre il corpo

A proposito del corpo e del suo rapporto con le nostre esperienze vissute, il maestro Nil Hahoutoff, uno dei pionieri della diffusione dello yoga in Francia, affermava riguardo alla colonna vertebrale che “la regione lombare e la nuca sono le due zone pattumiere delle nostre incapacità”: un’immagine che rende bene l’idea di come questi due meravigliosi spazi, creati dalla natura per rendere più flessibile e, allo stesso tempo, forte la colonna, diventino invece i depositi di ciò che non vogliamo affrontare. Allo stesso modo si potrebbe affermare che la curva cifotica dorsale subisca invece il peso delle nostre responsabilità, o delle nostre paure: tendiamo a incurvarci per proteggerci e per sostenere i pesi emotivi. In generale cerchiamo di ignorare il nostro lato posteriore, in parte perché non possiamo davvero vederlo con gli occhi, in parte perché lo usiamo come scudo per proteggerci da ciò che ci accade nella vita.

La dimensione emotiva nella quale è immerso il nostro corpo, non è l’unica cosa che lo ha formato. In una visione molto più ampia il nostro corpo è anche il risultato di altri quattro fattori:

  • la storia evolutiva dell’uomo: eravamo quadrupedi e siamo bipedi, un cambiamento che ci ha portato ad avere la colonna vertebrale eretta, arti inferiori più stabili e forti, arti superiori molto più mobili e pronti ad afferrare tutto ciò che ci circonda.
  • La nostra storia genetica, che fa del nostro corpo una precisa combinazione di elementi ereditati dai nostri genitori, dal colore degli occhi al nostro modo di pensare.
  • Le attività fisiche sportive, che hanno contribuito a costruire i nostri pattern di movimento.
  • Gli infortuni o gli incidenti più o meno gravi, che hanno lasciato tracce nel nostro corpo, cicatrici fisiche ed emotive.

Tutte queste storie, che raccontano capitoli diversi del nostro corpo, convergono insieme, ci determinano e mettono in evidenza il dialogo tra il corpo e la mente, una connessione di cui è responsabile fisicamente il nostro sistema nervoso, che non a caso risiede principalmente nel cervello e lungo la colonna vertebrale.

Endoderma, mesoderma, ectoderma

Sono i tre strati di tessuto che si creano nell’embrione umano. Dall'endoderma si creano i nostri organi interni, dal mesoderma si creano i tessuti connettivi, compresi ossa, muscoli e fasce. Dall’ectoderma si crea l’organo più esterno e più grande del nostro corpo, la pelle, ma dall’ectoderma si forma anche il sistema nervoso, creando così un profondissimo legame tra la parte più superficiale e la parte più profonda del nostro corpo. Come dire che anche in questo caso siamo predisposti per natura ad un dialogo tra questi due estremi e lo yoga, proprio nel suo significato di “unione, giogo”, è ciò che lo rende possibile in modo consapevole.

Lo yoga: dalla pelle alla mente

Uno dei grandi maestri dello yoga contemporaneo, B.K.S. Iyengar, ne “L’albero dello yoga” afferma: “dovete osservare che le fibre della pelle siano esattamente parallele alle fibre della carne, in modo che attività e conoscenza siano una cosa sola e la mente riesca ad avvertire che c’è yoga, o contatto. Yoga significa unione, o legame. Se la mente, attraverso l’organo percettivo della pelle, non si accorge della vostra presenza nell’asana, allora è un esercizio solamente fisico”.

 

Articolo scritto da M. Paletta, insegnante della scuola di Yoga Rhamni 

 

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