Il cervello emotivo

"Un'esperienza potrebbe essere così emotivamente forte, da lasciare una cicatrice nel tessuto cerebrale”
William James, 1890

Siamo fatti per essere tranquilli

La nostra vita a volte è dura come l'acciaio e a volte  è dolce come il miele, a volte è muta e sorda e cieca, a volte solo silenziosa. Un po' come le montagne russe: un po' siam su, un po' siam giù, ribaltati,  poi tranquilli, un po' spaventati, poi terrorizzati e poi di nuovo in equilibrio, ma sempre precario. Basta una mosca a farci perdere la pazienza. Poca tregua per noi esseri umani. In fondo ci basterebbe solo un po' di pace, un po' di tranquillità, un po' di prevedibilità, non chiediamo tanto. Perché non siamo fatti per essere felici, siamo fatti per essere tranquilli.

Emozioni = vita

Nella tranquillità possiamo operare buone scelte e vederci meglio, senza essere offuscati dalle conseguenze delle nostre emozioni. D'altro canto non si può mica vivere in una situazione di deprivazione sensoriale, si rischierebbe la follia. Le emozioni sono vita. Ma è un dato di fatto, siamo sempre molto allertati. Viviamo come se fossimo sempre davanti a una tigre, in uno stato di attivazione, pronti a saltare appena ci pestano i piedi, appena le cose non girano come vorremmo. Pensate alla rabbia, un'emozione rapidissima che non lascia nemmeno il tempo  di riflettere e siamo già partiti, salvo poi pentirci di ogni nostra scelta fatta sotto i fumi delle arrabbiature più solenni. Viviamo come se fossimo sotto a un treno, travolti dagli eventi della vita, giù di morale, poco reattivi, disinteressati, a volte depressi. Molto spesso, comunque , alla base di molti dei nostri comportamenti c’è la paura, anche dietro la rabbia, se ci pensiamo bene, c’è paura.

La paura

La paura è un'innata abilità, che ha una funzione adattiva. Ma la paura non è sempre tutta da demonizzare,  infatti molte volte ci permette di reagire di fronte a situazioni di potenziale pericolo, mentre a volte, purtroppo, diventa fobia. C’è un esperimento terribile, condotto  dal comportamentista John Watson nel 1920, quando ancora non c’era un codice deontologico che definisse i parametri etici per  condurre esperimenti su cavie umane. Si chiama “Little Albert: conditioning a rat phobia”.

Little Albert

L'esperimento consiste nel traumatizzare ripetutamente un bimbo di circa un anno: in un primo tempo gli vengono mostrati animali innocui, a cui il bimbo reagisce in modo neutro, senza paura; in un secondo tempo alla visione degli stessi animali vengono associati suoni forti e fastidiosi che spaventano il bambino. A questo punto al piccolo Albert è sufficiente vedere una tenera scimmietta per tremare di paura. Questo per dimostrare che  la paura viene originata dai condizionamenti dell’ambiente. Inizialmente gli animali con cui interagisce Albert sono stimoli per lui neutri, il bimbo è tranquillo, ma avanzando nella dimostrazione della tesi, l'esperimento ci mostra come gli stimoli, dapprima neutri, diventano via via intenzionati e la risposta emotiva del piccolo Albert diviene di grande disagio. L’esperimento viene ricordato come qualcosa di profondamente immorale, naturalmente.

"Four F"

Dovremmo imparare a passare dalla nostra immediata capacità reattiva, che è legata al nostro sistema limbico - cioè  al circuito della paura e della sopravvivenza - ad una nuova modalità comportamentale: agire per non reagire. Le "four F" sono tutte le possibili reazioni dell’essere umano di fronte ad un evento stressante. Un esempio: vediamo un serpente. Come possiamo reagire? 

  • freeze:  ci congeliamo dal terrore. Ci “fingiamo  morti”, diventiamo prede “congelate" e, in realtà, ci conviene reagire così, perché così abbiamo più probabilità di farcela. La corteccia dei mammiferi carnivori infatti, quella deputata alla visione, così come la loro retina, rileva con maggior facilità  oggetti in movimento e molto meno i colori.

  • flight: se il serpente, anziché rimanere fermo si avvicina a noi, ci indurrà  una risposta di tipo cinetico, che consiste nel fuggire via da ciò che per noi è considerata una minaccia. Il movimento brusco del serpente verso di noi interrompe la nostra fissità attenta e ci fa allontanare.

  • fight: per sopravvivere entra in gioco la fase del combattimento. Scatta l’overdrive  del sistema nervoso simpatico, quello opposto al nervo vago, permettendo addirittura una violenza disinibita. Non rispondiamo più delle nostre azioni.

  • faint: sveniamo. Il nostro sistema crea un black out momentaneo: lo spavento è troppo grande.

La via bassa 

C'è un'unica via responsabile della valutazione rapida di uno stimolo? Ciò che sappiamo di certo è che nel nostro cervello rettiliano - quello più antico, primitivo - il talamo dà all'all'amigdala informazioni non perfettamente precise, ma molto immediate e veloci, come quelle descritte sopra, senza passare attraverso la parte corticale. Trattasi di paura senza consapevolezza. Questa è la prima via, quella che Ledoux, un importante neuroscioenziato francese che ha studiato i meccanismi di risposta del cervello, definisce  via bassa.

In questa immagine, tratta da una risonanza magnetica del cervello, sono evidenziate le due amigdale, le ghiandole che sono collocate alla base del cervello umano, nella zona appunto bassa occipitale, che si colorano di giallo-rosso mentre vengono somministrate, al soggetto,  immagini che lo mettono in una situazione di stress. Qui il soggetto ha rilevato un pericolo e parte per la via bassa, quella veloce, immediata, che non passa dalla neo corteccia. E se ci fossimo sbagliati? E se quello che abbiamo  visto a terra non fosse stato un serpente, ma una semplice corda o un bastone?

La via alta

Ledoux, nel suo testo “Il cervello emotivo” parla poi di una seconda via, che però va allenata. E'  una via più lenta, che fa valutazioni più precise ed accurate degli stimoli che giungono ai nostri sensi, riuscendo anche dare significato allo stimolo stesso. La seconda via è quella che lavora sempre nel nostro cervello ma, prima di farci reagire, passa  dalle aree corticali orbito-frontale, prefrontale, dorsolaterale e cingolata anteriore; passa dalla neo corteccia, zona del perfezionamento delle abilità cognitive, dove hanno sede il linguaggio, la capacità di fare calcoli, la consapevolezza, il senso del giusto e del suo contrario, eccetera.

In questa neuroimaging si vede il  cervello di una persona sottoposta a stimolo visivo. Il percorso è il seguente: gli occhi percepiscono l’input visivo, che viene a sua volta trasmesso al talamo tramite nervi cranici, che sono quelli colorati di verde e che si incrociano a livello del chiasma ottico.

Nell'immagine qui sopra si possono vedere, sempre colorate, le connessioni tra i neuroni, che fanno parte della via lenta. Qui il soggetto ha trasferito gli input dal talamo alla corteccia, in una via più lunga e quindi non ha attivato le reazioni tipiche della sollecitazioni date all’amigdala.

Risposte più consapevoli 

Come possiamo allenarci a risposte più consapevoli? Noi proponiamo lo yoga, perché è una strategia che permette di aumentare la tollerabilità al disagio. E’ una tecnica bottom up, ne parla la dott.ssa L. Tregnago nell'articolo "Lo yoga che ti cura".  Tutte le tecniche corporee e meditative di gestione dei pensieri, la Mindfulness, sono di grande aiuto proprio in questo senso (a questo proposito puoi leggere l’articolo "Che cos'è la Mindfulness", scritto dalla Dott.ssa B. Cricchio).

C'è una terza via? 

Ebbene sì, c'è una terza via, quella del Bhakti yoga, la via del cuore, che non sbaglia mai, ha sempre modi e tempi giusti. La via che illumina le nostre strade. Allora sediamoci in un luogo tranquillo, silenzioso, da soli, con la schiena diritta, in una posizione dignitosa, non rigida, magari con gli occhi chiusi, qualche respiro consapevole e, mettendo una mano sul cuore, chiediamoci con gentilezza, con un tono di voce interiore amichevole:

- quando è stata l'ultima volta che ho scambiato una corda per un serpente?
- ho mai provato a chiedere   al mio  cuore di cosa ha davvero paura quando mi capita di reagire velocemente?

Non cerchiamo di darci subito delle risposte, arriveranno al momento giusto. Magari un giorno, inaspettatamente.

Articolo scritto da Laura Dajelli

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